Quando torneremo a viaggiare torneremo da Walter Benjamin. Percorreremo il suo ultimo tragitto e ci fermeremo nel luogo in cui scelse di morire.
Partiremo da Marsiglia; perché lì era arrivato, in una giornata d’agosto, da una Parigi occupata dai tedeschi. Uno tra i tantissimi esuli, che erano scesi a sud e si erano bloccati di fronte al mare. Avrebbe voluto rifugiarsi in Inghilterra ma, non essendo riuscito a ottenere un permesso d’uscita francese, aveva deciso di andare a piedi fino in Spagna, attraversando i Pirenei, come facevano centinaia di altri profughi e di lì trovare un imbarco verso gli Stati Uniti. “Non senza amarezza mi piego all’infausta costellazione che sembra sovrastarci”.
Con queste parole il 20 agosto 1940, Benjamin lasciò Marsiglia con un passaporto rilasciato dall’American Foreign Service e il visto di transito del consolato spagnolo; portava la sua pesante cartella di cuoio nero, dentro la quale era il suo ultimo manoscritto la cosa più importante per lui: “Il manoscritto deve salvarsi. Vale più della mia stessa vita”. Con lui erano quella che sarebbe diventata la seconda moglie di Erich Fromm, e il di lei figlio sedicenne.
Da Marsiglia ci muoveremo anche noi in direzione sud lungo la costa del Golfo del Leone; attraverseremo la Camargue e poi giù fino al porto di Sète e ancor più giù fino a Narbonne e poi Perpignan fino ad arrivare a Port-Vendres, a 18 km dal confine con la Spagna.

Perché fu a a Port-Vendres che i tre profughi si fermarono, da Lisa Fittko (moglie di Hans Fittko che era stato internato con Benjamin nel campo di Verruche), che li avrebbe aiutati ad oltrepassare il confine.
Seguendo i passi di Benjamin percorreremo la Route Lister, una via usata da tempo immemore dai contrabbandieri, perché, passando attraverso i vigneti carichi dell’uva dolce e scura di Banyuls, si snoda ai piedi di un costone che protegge dalla vista delle guardie francesi di pattuglia. Benjamin, che soffriva di cuore, risalì con molta fatica quell’ultimo tratto verso la libertà, camminava molto lentamente e respirava a stento, ma ce la fece e, mentre il sole calava sul 25 settembre 1940, lui e i suoi compagni di viaggio raggiunsero la vetta ed entrarono in Spagna.


Per Benjamin invece la libertà era diventata impossibile. Il giorno dopo sarebbe dovuto ritornare nella repubblica di Vichy e per lui ciò significava la deportazione e il campo di sterminio.
Quella notte stessa Benjamin decise di suicidarsi, scrisse un’ultima lettera indirizzata ad Adorno e si uccise con le compresse di morfina, che aveva portato con sé proprio per non cadere in mano ai nazisti: “la mia situazione senza speranza non mi lascia altra scelta che uccidermi. È in un piccolo villaggio dei Pirenei, dove nessuno mi conosce, a Port-Bou, che la mia vita finisce”.
Fu sepolto nel cimitero comunale, i suoi compagni di viaggio pagarono l’affitto del loculo per soli cinque anni. Dopo tale periodo il suo corpo fu calato in una fossa comune, il che rese impossibile la sua identificazione. Impressionate dal suicidio di Benjamin, le guardie di frontiera consentirono agli altri fuggiaschi di proseguire. La cartella di cuoio fu ritrovata a Figueres, presso il tribunale, insieme con la sua pipa ed i suoi occhiali, il manoscritto non fu mai più ritrovato.
A Portbou finirà anche il nostro viaggio; ci fermeremo lì ,in quel minuscolo villaggio di frontiera spagnolo, che ti accoglie con un Guernica strizzato tra i condomini, a rendere omaggio alla memoria di un grande uomo nell’unico modo possibile: riflettendo sulle guerre di ogni tempo e natura, sulla barbarie di un mondo, che da sempre si fa dominare dal capitale, sull’indifferenza verso i più deboli, che ne sono vittime indifese e invisibili.
E non c’è posto migliore per farlo di questo monumento “in memoriam”, ideato dallo scultore Dani Karavan e da lui chiamato Passatges (con riferimento all’opera incompiuta di Benjamin, Passagenwerk), inteso come un luogo di passaggio del divenire storico.
Il monumento si tuffa nel mare, di fronte ad una piccola scogliera; si trova a pochi metri dal cimitero municipale, dove una lapide commemorativa suggella i resti del filosofo berlinese. Scendendo le scale di quel non-luogo che, coperte da un tunnel in acciaio conducono verso il mare, il nostro cammino è interrotto da una parete di vetro, sulla quale è inciso, un frammento di Benjamin: “È compito più arduo onorare la memoria di esseri anonimi che non quella di persone celebri. La costruzione storica si consacra alla memoria di coloro che non hanno un nome”.
Credo sia proprio questo ciò che chiede ora Benjamin, il nostro “essere qui” non dovrà essere solo un pellegrinaggio al luogo in cui lui visse le sue ultime ore.
A Portbou convergono molte vite, sono quelle di chi, ancora oggi, condivide con Benjamin la condizione di prigioniero, improvvisamente privato di ogni diritto e che non riesce più a comprendere dove si collochino la linea dell’amicizia, quella della lealtà, quella della dignità di sé.
Quella di Benjamin era la dimensione del fuggitivo, del profugo, una condizione che rappresenta la genealogia delle molte scene che riempiono la nostra quotidianità. La nostra quotidianità, che è il sistema politico malato e incancrenito in cui viviamo, che impone un linguaggio pubblico escludente, in cui la paura e l’odio per il diverso non ammettono la possibilità di pensare a una politica di accoglienza.
Inevitabile è anche pensare al suicidio: Una vita che si interrompe è un libro chiuso per sempre e, se il libro è stato chiuso volontariamente, si possono solo fare ipotesi.
Perché si uccise? Fu un atto di libertà, come scrive Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo: “uccidersi in condizioni drammatiche quando la propria vita è in mano ai tuoi carnefici, o rischia di divenire loro preda, corrisponde a un atto di libertà. Ovvero è la dimostrazione che ancora si possiede una personalità e dunque si è ancora proprietari del proprio corpo”?
Oppure non aveva più voglia di lottare e ha deciso di lasciare che il mondo si chiudesse su di lui perché lo sforzo di immaginare la sopravvivenza era superiore alla sua immaginazione. Non c’era salvezza, e desiderava uccidersi. Era certo che, tra poco, ci sarebbe stata un’altra guerra mondiale, distruggendo per sempre la civiltà umana.
Nel 1940, attraverso Angelus Novus Benjamin, esprimeva la sua visione messianica della storia, l’attesa perpetuamente insoddisfatta di una redenzione a venire, in cui l’essere umano sarà portato lontano dal tempo e dal progresso, lasciandosi alle spalle le tragedie e gli orrori che l’umanità ha creato, seminando morte e distruzione ad ognuno dei suoi passi. Riscattare questi orrori e rendere giustizia alle vittime non è secondo Benjamin, un compito di una divinità né della storia dell’umanità: le macerie della storia non trovano giustificazione, non acquisiscono dignità per ciò che hanno prodotto o per quello che hanno rappresentato e la storia dell’uomo è da sempre la storia di sangue e morte. Per questo l’Angelo di Klee guarda angosciato il passato, mentre il vento lo spinge via, quando vorrebbe restare tra quelle vittime per tenerle strette a sé, per garantire ad esse un significato di qualche tipo. L’unica redenzione possibile è quella offerta dalla memoria: solo serbando il ricordo delle vittime, e perciò testimoniando della loro morte, dell’insensatezza della loro sconfitta e delle loro sofferenze, si può interrompere il giogo della visione della storia ufficiale, raccontata dai vincitori, dell’engeliano “carro trionfale che incede su cumuli di cadaveri”.
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradio, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
Se l’Angelo della Storia ha il viso rivolto al passato, verso dove o verso cosa era rivolto quella notte di settembre il viso di Walter Benjamin, uomo libero, filosofo ed ebreo errante dal 1933?
Seduti a Portbou, di fronte al tramonto sul Mediterraneo cercheremo di capire.
Grazie per questo articolo, così storicamente preciso, corredato di splendide foto ed ispirato da profonda sensibilità. Complimenti!
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Grazie! Dopo tantissimo tempo e dopo un periodo molto buio, riapro questo blog e ti leggo… non so descrivere quanto coraggio mi hai dato, ma posso assicurarti che mi hai regalato la voglia di ricominciare a scrivere. Non sarà facile e neppure immediato ma ricomincerò e te ne sarò per sempre grata. Un abbraccio
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